Sono
trascorsi quarant’anni dalla tragica morte di Giangiacomo Feltrinelli, l’ex
partigiano che voleva esportare la Rivoluzione cubana in Italia
Il
14 marzo 1972 morì, a Segrate, Giangiacomo
Feltrinelli: editore, partigiano e rivoluzionario italiano. Sono passati
quarant’anni dal giorno in cui il fondatore dei GAP (Gruppi d’Azione
Partigiana), il cui nome di battaglia era Osvaldo, fu ucciso dalla bomba
(preparata con l’aiuto di Carlo Fioroni)
che tentò di piazzare sotto un traliccio dell’alta tensione, nei pressi di
Milano.
Tutt’ora
è considerato un personaggio scomodo, come Amadeo
Bordiga prima di lui, una specie di “innominabile” negli ambienti della
sinistra italiana e non solo. Nel 1944, s’iscrisse al Partito Comunista
Italiano e prese parte alla Resistenza contro il regime fascista di Benito
Mussolini.
Amico
di Fidel Castro volle esportare la
Rivoluzione cubana nel Belpaese (le prime azioni ebbero luogo in Emilia e in
Liguria). Nel 1968, si recò in Sardegna per incontrare i militanti della
sinistra e i gruppi separatisti (Feltrinelli entrò in contatto con il bandito Graziano Mesina), e organizzare così la
lotta armata sull’isola.
Nel
suo libro, Morì
come Che Guevara - storia di Monika Ertl, il
giornalista tedesco Juergen Schreiber
ha raccontato che era di proprietà di Feltrinelli
la pistola (una Colt cobra 38 special) che, impugnata da Monika Ertl il primo aprile 1971, uccise,
presso il consolato boliviano ad Amburgo, l’assassino di Ernesto Che Guevara: l’ex colonnello della polizia, Roberto
Quintanilla Pereira.
Con
tre colpi di pistola, la giovane guerrigliera marcò il corpo del console
boliviano con una “V”, che stava ad indicare la parola “Vittoria”. Sulla scrivania dell’ex
poliziotto boliviano, la trentaquattrenne tedesca lasciò un biglietto con
scritto “Vittoria o Morte”: il motto dell’ELN (Esercito di Liberazione
Nazionale) in Bolivia.
Nel
1970, dopo la strage di Piazza Fontana (1969), temendo un golpe militare, come
accadde in Cile, da parte della destra neofascista italiana, Feltrinelli decise di fondare i GAP. In
Il Partito Armato, Giorgio Galli ha spiegato che “la
questione delle origini ideologiche del partito armato – il suo
marxismo-leninismo – s’intreccia con quella del richiamo alla tradizione
antifascista, della quale si sono già viste manifestazioni indicative, dalla
terminologia (GAP, Nuova resistenza), alle date scelte per le azioni”.
L’editore
nato a Milano il 19 giugno 1926 era, politicamente, vicino al “nucleo storico”
delle Brigate Rosse. Come Che Guevara,
questi gruppi ribelli credevano che la lotta armata fosse “l’unica soluzione
per i popoli che lottano per liberarsi”. Secondo il docente di Storia delle
dottrine politiche, essi erano “gli eredi di una tradizione politica che
parlava di ‘Resistenza tradita’, cioè di una lotta armata potenzialmente
rivoluzionaria che non aveva raggiunto i suoi obiettivi ultimi (uno Stato
socialista) a causa della strategia del PCI di Togliatti, definita ‘opportunista’ – gli iniziatori della lotta
armata pensavano a un partito che questa lotta avrebbe ripreso e condotto fino
al raggiungimento di tale obiettivo, sia pure a lunga scadenza”.
Il
conflitto ideologico tra Feltrinelli
e il PCI, ha spiegato Galli, aveva un
risvolto anche a livello internazionale. Le idee politiche dell’editore
milanese erano particolarmente internazionaliste. Egli credeva nell’“esercito
internazionale del proletariato”, di cui avrebbero dovuto far parte gli
eserciti rivoluzionari latinoamericani, africani e asiatici con a capo quelli
del Vietnam, della Corea del Nord, della Cina e dell’URSS. “Se si considera che
questo scenario viene evocato proprio mentre più aspro è lo scontro ideologico
trai partiti comunisti dell’URSS e della Cina, la tesi […] risulta persino paradossale”,
ha scritto lo storico italiano ed ha aggiunto: “si trattava in realtà di una
valutazione dell’URSS che aveva profonde radici nella tradizione comuniste alla
quale Feltrinelli si riallacciava e
che trovava espressione in uomini come Pietro
Secchia, già leader (invero alquanto cauto) della cosiddetta ‘ala dura’ del
PCI – quella che negli anni Cinquanta ufficialmente condivideva, e a mezza voce
criticava, il possibilismo togliattiano”.
Osvaldo
fu coerente con le sue idee fino alla fine. A quarant’anni da quel tragico
evento, sono ancora forti i dubbi che circondano la sua morte. Alcuni giorni
fa, Ferruccio Pinotti ha pubblicato
una notizia “stupefacente” sul Corriere
della Sera: secondo la perizia medico-legale dell’epoca, il rivoluzionario
italiano potrebbe “essere stato aggredito prima dell’esplosione, legato al
traliccio con l’ordigno e fatto saltare”. Non si sarebbe trattato di un
incidente, quindi, ma di un vero e proprio omicidio.
Scoprire
il mandante non sarà impresa facile. Secondo Pinotti, infatti, “sono molti i
possibili infiltrati, i «traditori» che possono avere ordito la morte di Feltrinelli ed aver collaborato ad
essa: ambigue figure infiltrate nell’entourage dell’editore dal Mossad o dall’intelligence atlantica,
con la collaborazione dei Servizi italiani”.
In
un articolo del 26 marzo 1972, il settimanale politico Potere Operaio affermò che Feltrinelli
fosse stato ucciso “perché era un rivoluzionario che, con
pazienza e tenacia, superando abitudini, comportamenti, vizi, ereditati dall'ambiente
alto-borghese da cui proveniva, si era posto sul terreno della lotta armata,
costruendo con i suoi compagni i primi nuclei di resistenza proletaria”.
Figlio del suo tempo Giangiacomo Feltrinelli rimane un
personaggio estremamente affascinante per il suo impegno politico e culturale,
nel nostro Paese e all’estero. Rivoluzionario romantico sulle orme di Fidel Castro ed Ernesto Guevara (fu il primo a pubblicare in Italia il diario del
Che in Bolivia) volle applicare la guerra di guerriglia sulla nostra
penisola.
Come Giuseppe Garibaldi, tentò di liberare, con l’uso delle armi, la sua
Patria da coloro che egli riteneva degli usurpatori. Impotente, come molti suoi
compagni, davanti agli accordi stipulati a Jalta da Stalin, Churchill e Roosvelt nel 1945, che divisero il
mondo in due blocchi contrapposti, l’ex partigiano italiano morì all’età di
quarantacinque anni.
Vincenzo Iannone